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Perché l’Africa rischia la «tempesta perfetta»

Davos africana

di  – Il Sole 24 ore

ll’11 al 13 maggio si è svolta a Kigali, in Rwanda, la Davos africana. Il World economic forum ha visto più di 1.200 partecipanti da 70 nazioni confrontarsi sul tema: «Connettere l’Africa attraverso una trasformazione digitale». Sullo sfondo della tre giorni del Wef c’erano più che il tema del digitale i timori per la crisi economica che ha colpito diversi paesi del continente nero a causa della forte diminuzione delle quotazioni delle materie prime e, di converso, della svalutazione monetaria rispetto al dollaro e dell’aumento del costo dei debiti pubblici espressi in dollari.

Paesi come Etiopia, Costa d’Avorio, lo stesso Ghana dei miracoli, della crescita del Pil sopra al 20%, Zambia, Mozambico e Angola, si trovano strozzati dalla situazione economica che si è generata negli ultimi mesi. Una situazione choc per diverse economie, con i prezzi delle materie prime divisi per due in media, e quelli del petrolio divisi per tre, e tassi di indebitamento crescenti. Tanto che qualcuno comincia a parlare di “rischio default”. Le Monde ha titolato così: «L’Africa sotto la minaccia di una tempesta perfetta». Un circolo vizioso da cui si fa fatica a intravedere una via di uscita con il Fmi sul chi vive e, dietro l’angolo, il timore di tornare ai tremendi anni 80 e 90 del super indebitamento delle economie africane. Quest’anno per la prima volta dopo diversi anni la crescita economica del Pil africano scenderà al 3% (dal 5-8% degli ultimi anni) stando alle stime del Fmi.

I richiami del Fondo monetario internazionale sul debito riguardano diversi paesi. I paesi più toccati sono quelli più esposti con le esportazione di materie prime: Angola, Nigeria, Gabon, Congo Rdc, Zambia, Mozambico (“situazione critica” secondo il Fmi), Etiopia, Costa d’Avorio, Malawi.

L’Angola del boom petrolifero, del clan del presidente Dos Santos e della colonizzazione al contrario verso le aziende portoghesi. Dos Santos negli anni del petrolio ai massimi ha speso milioni di dollari e si è indebitata per le infrastrutture e lo sviluppo di un paese da ricostruire dopo decenni di guerra civile. Ora si trova in difficoltà con il calo degli introiti petroliferi per ripagare i prestiti del Fmi.

Ghana, Malawi e Zambia hanno appena siglato un accordo con il Fondo che rinegozia e dilaziona la restituzione dei prestiti internazionali. Anche il Mozambico di recente ha ottenuto 1,4 miliardi di dollari di prestiti internazionali. E il costo degli interessi, complice il calo delle materie prime e la svalutazione della moneta nazionale, è lievitato. Tanto che l’ex colonia portoghese ora si trova senza soldi in cassa

Lo Zimbabwe è un caso a parte. Dopo 15 anni di isolamento l’amministrazione Mugabe vuole ricucire i legami con l’occidente ripagando 1,8 miliardi di dollari di debiti arretrati con Fmi, Banca Mondiale e African Development Bank. I fedeli partner cinesi cercano di intercedere per il governo di Harare con gli esperti della “troika”. Ma come ha detto di recente il responsabile Paese del Fmi a proposito dello Zimbabwe: «Le condizioni economiche sono drammatiche e le riforme economiche andrebbero fatte, ma subito». Per ora lo Zimbabwe guidato dall’autoritario e anziano leader Robert Mugabe ha deciso di fare a modo suo per aumentare le riserve monetarie e avere liquidità a fronte di un’inflazione a 3 cifre, una vagonata di debiti e una fortissima svalutazione monetaria: stampare il dollaro Usa, la propria versione autarchica del biglietto verde. Una notizia che più che far sorridere denota una situazione ai limite della disperazione.

Il forte calo dei prezzi delle materie prime obbliga i paesi africani a emettere nuovi prestiti obbligazionari in dollari sui mercati finanziari per finanziare la spesa pubblica. Interessi che si stringono come un nodo scorsoio sulle derelitte economie africane, favorite dalla forte svalutazione delle monete nazionali. Le Agenzie di rating cominciano ad abbassare la valutazione dei paesi. I prestiti obbligazionari diventano via via più esosi da rimborsare. Il mercato chiede più garanzie. I tassi schizzano su. E ripagare il debito costa ogni giorno di più. Come un cane che si morde la coda. Un po’ come è successo per l’Italia alla fine del governo Berlusconi o per la Grecia a rischio default qualche mese fa. Con il rischio che qualcuno, prima o poi, non riesca davvero a ripagare questo debito enorme. E vada verso il default, il fallimento. Lo scenario peggiore che per ora nessuno osa neanche pronunciare, ma tutti temono.

Il premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz parla di «possibili difficoltà» di alcuni paesi a rimborsare il debito. «Un fenomeno che comincia a inquietare i governatori delle banche centrali africane», ha ammesso John Page, ex capo economista della World Bank.

Secondo i calcoli di Jubilee Debt Campaign, il Ghana dei miracoli per ripagare i suoi presiti obbligazionari dovrà usare dal 16% al 23% degli introiti governativi, solo considerando la svalutazione del cédi, la moneta nazionale, nei confronti del dollaro.

Alla Davos africana si è detto che si deve sviluppare una politica di diversificazione economica, per non tenere le economie legate solo alle materie prime, puntando sulla manifattura e una industrializzazione locale (quello che stanno cercando di fare i cinesi in tanti paesi con dei progetti di partnership), e puntando ad aprire le loro economie. Si deve puntare sul digitale e sulle possibilità offerte dall’economia della rete e della condivisione, sull’integrazione regionale. Questo dalla parte dei governi. Mentre per gli investitori internazionali è il momento di guardare alle possibilità che si aprono nel settore primario, l’agricoltura, proprio in ragione dei bassi prezzi delle materie prime.

Makhtar Diop, vice presidente per l’Africa della World Bank, riferendosi all’era dei prezzi bassi delle commodity ha parlato di «una meravigliosa opportunità» per gli investitori.

Qualcuno sta cercando soluzioni alternative. La Nigeria ha appena segnato un accordo con la Cina (che pesa per il 70% dell’import nigeriano), per pagare gli scambi non più in dollari ma nella moneta cinese, lo yuan. Un mezzo per evitare la strozzatura monetaria e limitare la crescita dell’inflazione che cresce del 12 per cento l’anno.

È il momento di guardare a Sud, si è detto e ridetto alla Davos africana. Ma, per ora, si resta sui buoni propositi e sui discorsi ispirati. Con la crisi che morde.

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