«MENTRE LE AZIENDE PRODUTTRICI DI APPARECCHI ELETTRONICI NON SANNO DIRE DOVE SI PROCURANO LE MATERIE PRIME, SONO MORTI 80 BAMBINI MINATORI»
Dal sito Altrimondi:
«24 ore nel tunnel. Mangio e riposo dentro il tunnel. Mia madre voleva mandarmi a scuola, mio padre mi ha mandato nelle miniere di cobalto. Ho i polmoni a pezzi.»
Non è l’incipit di un romanzo di Dickens o di Verga, ma la confessione, dura e cruda, di Paul, un ragazzo di 14 anni,uno degli 87 minatori della Repubblica democratica del Congo cui Amnesty International ha dato voce.
Secondo l’ultima stima dell’Unicef sono almeno 40mila i bambini sfruttati nel lavoro delle miniere: «Mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici fatturano 125miliardi di dollari annui e non sanno dire dove e in che condizioni di lavoro si procurano le materie prime, nell’ultimo anno sono morti nel sud del Congo 80 bambini minatori.»
Non c’è alternativa, se si vuole sopravvivere. Lo confessa Francois, che lavora nelle miniere insieme al figlio tredicenne, Charles: «Come si fa a pagare la retta della scuola? Come si fa a pagare il cibo? Dobbiamo lavorare in questo modo, perché non c’è altro lavoro.»
Il rapporto di Amnesty “This is what we die for” ha ricostruito il percorso del cobalto estratto in Congo: questo viene lavorato e venduto a tre aziende – Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud – che producono batterie per automobili e smartphone. Tra i clienti delle tre aziende in questione ci sono 16 multinazionali, tra cui figurano Apple, Microsoft, Samsung, Vodafone e Volkswagen che, a seguito dell’indagine condotta da Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, non hanno saputo o voluto dare spiegazioni a riguardo: «Il quadro che emerge è quello di una mancanza complessiva di trasparenza. Sulla base delle risposte fornite dalle 16 aziende interpellate, Amnesty International sostiene che nessuna sia stata in grado di fornire informazioni dettagliate, sulle quali poter svolgere indagini indipendenti per capire da dove venga il cobalto.»